L’ultimo periodo dell’attività alfieriana

La Mirra realizza compiutamente l’ultimo momento della grande poesia alfieriana, il cui nucleo tragico trova in quell’opera il suo estremo svolgimento in condizioni di particolare eccellenza stilistica e in un fervore profondo di vita interiore. Profondità e complessità di vita interiore, ricchezza di fermenti che giustificano uno svolgimento dell’Alfieri al di là della Mirra, anche se in una zona non piú di grande poesia, e che sono documentate negli anni stessi della grande ultima tragedia soprattutto da due opere: il dialogo La Virtú sconosciuta e il trattato Del Principe e delle lettere; ma anche dal Panegirico di Plinio a Trajano, del 1785, che in forma di traduzione di un testo autentico ritrovato dall’Alfieri ribadisce le conclusioni pessimistiche del poeta sulla efficacia delle belle parole e sulla impossibilità che la libertà possa venir donata al popolo anche da un «principe ottimo» quale appare Traiano nelle parole di Plinio.

Il dialogo è particolarmente vicino alla Mirra nell’approfondimento di intimi motivi pessimistici che, in una prosa piú sensibile e nuda, sembrano persino preludere a caratteristici movimenti della prosa piú segreta del Foscolo e del Leopardi:

Te sfuggito e sottratto alle noje, al servire, al tremare, alla vecchiezza, alle infermità, e piú di tutto al dolore immenso e continuo di conoscere il bene ed il grande, e non poterlo né ritrovar né eseguire, te invidio bensí, ma te non compiango giammai.[1]

dice l’Alfieri all’ombra dell’amico morto Gori Gandellini.

Privato ed oscuro cittadino nacqui io di picciola, e non libera cittade; e, nei piú morti tempi della nostra Italia vissuto, nulla vi ho fatto né tentato di grande; ignoto agli altri, ignoto quasi a me stesso, per morire io nacqui, e non vissi; e nella immensissima folla dei nati-morti non mai vissuti, già già mi ha risposto l’oblio.[2]

dice l’ombra che cosí ben rappresenta la voce del piú profondo, disilluso e virile pessimismo alfieriano, la voce che sembra annullare ogni speranza di epoche migliori e persino ridurre a vana illusione e «delirio» (Gori Gandellini precursore del Parini nell’omonimo dialogo leopardiano) lo stesso desiderio di fama cosí vitale fra i valori alfieriani:

Venendo io dalla magione del disinganno, potrei su questo umano delirio, che amor di fama si appella, dirti e dimostrarti tai cose, che non solo ti consolerebbero di questa tua ideale mia fama, da me non acquistata, (né acquistabile mai) ma ad un tempo istesso ti trarrebbero forse del cuore l’ardentissimo desiderio che della tua propria tu nutri nel petto.

Ma, cessi il cielo, che cosí dolce ed utile chimera io voglia giammai negli umani petti né pur menomare, non che distruggerla. Cagione essa sola d’ogni umana bell’opera, sovra chi piú è nato ad intraprendere ed eseguire il bello, piú dispotica regni. E pur troppo già di essa il moderno pensare è nemico; e quindi la sempre maggiore scarsezza d’uomini grandi, e di alte cose.[3]

Ed ecco che, nella seconda parte del passo citato, il pessimismo è controbilanciato dal sentimento alto, appassionato di un valore che, pur chiamato «chimera», è «dolce ed utile» (le illusioni-valori del Foscolo, gli errori vitali del romanticismo di origine sensistica e materialistica) e vien contrapposta al «moderno pensare» freddamente razionalistico, contro cui l’Alfieri è sempre piú in decisa, aspra polemica. Come meglio si può vedere nel trattato Del Principe e delle lettere, in cui piú ampiamente si sviluppa il motivo della grandezza degli uomini dotati di «forte sentire», della validità dell’amore di gloria, della poesia e dell’«impulso naturale», della creatività insomma, che superano la constatazione, pur sempre presente, della miseria della situazione umana che tocca anche agli uomini grandi, della difficoltà di realizzazione degli ideali, del mondo basso in cui l’uomo d’eccezione è costretto a vivere.

Tutto il trattato è pieno di spinte pessimistiche (e proprio nella finale revisione dell’86 l’autore lo costellò fittamente dei suoi tipici «pur troppo»), ma la sua direzione fondamentale è singolarmente attiva e animata da una forte fede nell’aspetto eroico dell’umanità degli uomini grandi, nel valore della libertà che è «impulso naturale», creatività poetica, iniziativa individuale di trasformazione della società (liberi uomini gli eroi, i capisetta, i santi e soprattutto i poeti). Sicché le lettere sono l’affermazione stessa della libertà e il letterato (il letterato non cortigiano, cioè il vero letterato, ché per l’Alfieri l’altro è solo il «traditore delle lettere») è l’antitesi stessa del principio del tiranno, del potere assoluto che contamina la vita e che è l’aspetto stesso della realtà inferiore, limitativa ed oppressiva. E se il I Libro (concepito piú come corollario della Tirannide e meno vigoroso di questa, piú sofisticato e contorto)[4] indugia sulla descrizione di quel principe e della sua naturale avversione per le lettere, il vero interesse dell’Alfieri meglio si rivela nel II e nel III Libro, in cui egli fonda una nuova nozione del letterato in netta antitesi con quello arcadico e cortigiano, del letterato contraddistinto da due essenziali caratteri: il «forte sentire» e il «robusto pensare», e disposto per sua natura al dissenso rispetto al potere costituito.

Da questa posizione nasce la contrapposizione di poeti liberi come Dante e Lucrezio a poeti come Virgilio, Orazio e Ariosto (poeti cortigiani), e nascono l’esaltazione della poesia al di sopra delle scienze e delle altre arti che potrebbero pur vivere sotto la protezione dei principi[5] (non però le scienze quando esse investono la concezione stessa della vita, come nel caso di Galileo), l’esaltazione del poeta come eroe (e addirittura superiore all’eroe della pratica[6]), come appartenente a quella umanità superiore animata da un fortissimo «impulso naturale». Non ragione, non buon gusto, ma genio e «impulso naturale» contraddistinguono i poeti e li accomunano a quegli uomini («letterati attori», come i poeti sono «letterati scrittori»: e si noti come la parola «letterato» venisse cosí a coincidere con la nozione di uomini di eccezione accomunati da un’unica radice di genio e di impulso naturale) che hanno operato mossi dallo stesso «sovrano irresistibile impulso» e dallo stesso impegno di agire e di trasformare la realtà storica in cui sono vissuti.

In tal modo nel Libro III[7] l’Alfieri giunge persino ad una nuova entusiastica valutazione dei capisetta, dei martiri e santi (si badi bene «cosí cristiani che giudei, o di altre religioni») che amplia improvvisamente il cerchio del suo mondo eroico senza con ciò effettivamente contraddire alle sue affermazioni anticlericali e anticattoliche della Tirannide[8], ma certo introducendoci ad un atteggiamento piú complesso (se pur non privo di gravi pericoli) di attenzione a valori di sentimento e di fede, cosí chiaramente romantica e corrispondente ad una sempre piú forte avversione per gli aspetti di freddo razionalismo, di enciclopedistica sufficienza, di derisione delle «illusioni» e delle «fedi» della civiltà illuministica come essa appariva al preromantico Alfieri.

Il nuovo sentimento esaltante dell’energia dell’«impulso naturale» si traduce, come dicevo, in una violenta polemica con il secolo «niente poetico, e tanto ragionatore» (come l’Alfieri aveva detto nel Parere sul Saul), in nome del sentimento o della creatività di individualità eccezionali, di una nozione di cultura aristocratica, di una estrema società spirituale[9] che, nell’unione inseparabile nell’Alfieri di poetica e di politica, conferisce alla poesia un carattere profondamente impegnativo e religioso-eroico, acuendo insieme il valore decisamente antiformalistico della poetica alfieriana e naturalmente anche il pericolo della sua oratorietà, della sua destinazione pratica e civile che in questo periodo, pur non perdendo mai di vista lo scopo liberatore, mette in primo piano un nuovo mito, un nuovo termine di fede eroica coerente ad un crescente bisogno di concretezza e al distacco dal cosmopolitismo razionalistico settecentesco: il mito della nazione e del popolo italiano.

Il III Libro del trattato culmina infatti in un capitolo intitolato «Esortazione a liberar la Italia dai barbari» (esplicita ripresa del finale del Principe del Machiavelli), in una concitata esaltazione dell’Italia che pur «nell’apice della sua viltà e nullità» dimostra tuttora «agli enormi e sublimi delitti che tutto dí vi si van commettendo, ch’ella, anche adesso, piú che ogni altra contrada d’Europa, abbonda di caldi e ferocissimi spiriti, a cui nulla manca per fare alte cose, che il campo ed i mezzi»; dimostra, con la sua tradizione, che «gli uomini suoi, considerati come semplici piante, di piú robusta tempra vi nasceano: e le piante, nello stesso terreno, rinascono pur sempre le stesse, ancorché per alcun tempo le disnaturi a forza il malvagio cultore»[10].

Pagine accesamente preromantiche che segnano la nascita violenta del sentimento nazionale italiano e mediano anche il passaggio alle due ultime tragedie alfieriane, Bruto I e Bruto II[11], e giustificano il ritorno alla tragedia politica sotto il nuovo impulso del nuovo mito nazionale (e la seconda è proprio dedicata al popolo italiano futuro) e della piú forte identificazione di poesia e azione politica caratteristica del trattato Del Principe e delle lettere.

Occorre però dire subito che questo nuovo fervore non ebbe un vero corrispettivo poetico ed anzi la prima tragedia, piú direttamente legata ai motivi accennati, appare tanto piú difettosa anche su di un piano di tecnica teatrale, troppo immediatamente rivolta ad un fine oratorio, troppo confusa e mossa da un fervore confuso, priva di una vera possibilità di spiegata, articolata rappresentazione, guastata anche dalla gara con il Brutus di Voltaire sul metro della piú severa “romanità” e del sublime che vien poi complicato – non arricchito – da uno sviluppo maldestro di quel tema della grandezza e infelicità degli uomini che l’Alfieri aveva tanto sentito nel periodo precedente e che qui invano dovrebbe animare tragicamente, con il contrasto di un caso privato e di affetti familiari, il grandioso tema politico della fondazione della Repubblica romana. Per non dir poi delle allusioni politiche contemporanee (l’Alfieri scriveva nella Parigi prerivoluzionaria, e nella gara di eroismo e di spirito patriottico fra plebei e patrizi – si veda At. II, sc. 5, v. 188: «Divina gara! sovrumani accenti!»[12] – si riconoscono tipiche anticipazioni di confusi atteggiamenti da Stati generali) che accrescono enfasi e oratoria, astratta esemplarità magnanima a tutti i rappresentanti “virtuosi” della nuova Repubblica di fronte ai quali manca anche il forte, stimolante contrasto del tiranno.

Né si può trovare vera poesia nel Bruto II, che pure raggiunge almeno un effetto teatrale assai migliore nel suo maggior equilibrio, in una capacità di distendere e articolare le varie parti, di svolgere una linea tragica assai limpida, di ottenere un interesse costante attraverso un’oratoria piú compatta ed abile. E anzi si può notare che, se anche qui la complicazione del caso privato con quello politico (il legame di sangue fra Bruto e Cesare) è assolutamente inefficace tragicamente, piú interessante è il motivo della reciproca ammirazione dei due avversari che corrisponde alla lunga meditazione alfieriana sulla comune radice di grandezza di eroi e tiranni “nati per non esserlo” (il sonetto a Federico II), e nella stessa impostazione oratoria piú che di una fredda esercitazione oratoria si deve parlare di un’abile, dignitosa ed efficace costruzione, in cui i discorsi (specie nella parte della congiura) riescono ad avvincere l’interesse e toccano in rari momenti punte piú intense.

Al teatro tragico l’Alfieri non tornò piú se non con un tardo rifacimento dell’Alceste di Euripide[13]. Ritornò anche all’attività tragica con un tentativo piuttosto bizzarro di compromesso fra la tragedia e l’opera musicale che egli chiamò «tramelogedia» e giustificò come un mezzo di sollevare a poco a poco il pubblico italiano, viziato dal melodramma e perciò solo «orecchiuto», al gusto della vera tragedia, facendogli intanto «ingoiare», entro un miscuglio di melodramma e tragedia, di canto, di spettacolo e di vera azione tragica, il fondo drammatico, serio di un simile componimento. Strano tentativo di compromesso da parte di un poeta che ha perduto la sua ispirazione e la stessa fiducia nei propri mezzi piú genuini.

E del resto lo stesso Alfieri, che aveva concepito un vasto piano di «tramelogedie», si fermò in questa via sbagliata dopo averne ideate due, l’Ugolino e la Scotta, e interamente composta una, l’Abele. Si tratta di fiacche riprese di motivi tragici precedenti: anche l’Abele (versificato nel ’90) è infatti, sostanzialmente, un corollario del mondo minore idillico-patriarcale del Saul («che siam, se Iddio ci lascia?», diceva David, e qui Adamo conferma: «Uom, lasciato a te stesso, ecco qual sei»[14]), una sottomissione senza amore e senza profonda convinzione. E mentre il motivo religioso nell’Abele è dunque al massimo il segno di un’inquietudine, di una meditazione che non trova esito superiore e decisivo, la realizzazione poetica della tramelogedia è del tutto insufficiente, incerta e addirittura goffa, sia nella direzione del “mirabile”, che qui diviene astrattamente spettacolare, esteriore e meccanico giuoco di figurazioni macchinose (la Morte, l’Invidia, ecc.); sia in quella insopportabile di un idillismo primitivo bamboleggiante e lezioso (quell’Adamo che invita i suoi alla «parca cenetta» e amabilmente rimprovera Abele «ghiottoncello»); sia in quella drammatica dell’uccisione di Abele, in cui al massimo si può recuperare la inquieta trepidazione di Caino che si sente dominato da un’oscura forza che lo trascina al fratricidio: motivo quest’ultimo piú congeniale all’ispirazione alfieriana, che riluttava invece ad uno sviluppo idillico e religioso cosí lontano dalle sue native condizioni di tormento, di rivolta e di elegia dolorosa.

Esaurita la vera poesia tragica, l’Alfieri continuò però a lavorare e a svolgersi e la sua attività dal 1790 alla morte meriterebbe pure una maggiore attenzione di quanto qui ci è permessa.

Si deve anzitutto delimitare un periodo in cui l’Alfieri, compiuta la revisione delle tragedie e definita per sempre la sua grande opera tragica nell’edizione parigina Didot, 1787-1789, provò come un forte senso di compiacimento per l’opera realizzata e si rivolse a sviluppare quell’esame e quella giustificazione anche autocritica della propria personalità e della propria attività, ad attuare quella volontà di completo autoritratto e di autoanalisi che è elemento in lui essenziale sin dai giovanili Giornali. E nacque cosí la Vita, che risente indubbiamente di una disposizione meno intensamente tragica (specie nella prima redazione dell’89-90), e si svolge su di un disegno programmatico vasto e complesso, in una visione sempre intensa e critica, ma piú calma ed equilibrata, che mette ben in chiaro i valori raggiunti, la linea positiva della sua vita, la mèta di una maturità sotto il segno del «degno amore» e della gloria poetica assicurata. E questi creano un piano superiore piú sicuro, permettono all’Alfieri una indagine piú meditata, la fusione e l’equilibrio di toni altrove piú risentiti, estremi e drammatici. Ché se certamente la Vita offre un intenso, dinamico e insieme autocritico ritratto dell’Alfieri, con la sua personalità individualistica e sdegnosa, meno violenti sono gli elementi pessimistici[15] e lo stesso significato della Vita come indagine valida sulla natura dell’uomo in genere non si risolve in un’acre analisi puramente pessimistica della natura umana, controbilanciata com’è da un forte senso eroico-plutarchiano, alleggerita da un certo sorriso ironico-indulgente e dal senso positivo di una vittoria della volontà che finí anzi a volte per accentuare anche troppo questo aspetto eroico-volontaristico, che tanto pesò sulla rappresentazione convenzionale e scolastica del poeta del «volli, sempre volli, fortissimamente volli».

E se nell’Alfieri manca un vero e proprio abbandono al dorato fascino del passato e del ricordo, certo nelle prime «Epoche», accanto al rilievo centrale del carattere appassionato e libero (il centro romantico di questa autobiografia cosí nuova e rivoluzionaria) non mancano toni delicatissimi nella narrazione di quegli episodi infantili che sembrano aprire tutto un nuovo sentimento della poesia della memoria, toni di aperto sorriso che si isolava in mezzo alla sdegnosa narrazione dei non-studi dell’Accademia (il saporito russare degli scolari alle lezioni della «papaverica» filosofia scolastica) e che danno una singolare complessità di tono alle bellissime pagine dell’infanzia e dell’adolescenza. Complessità e grande efficacia artistica del ritmo che si intensifica e drammatizza nella narrazione dei viaggi e delle passioni amorose, nella grande narrazione dell’avventura londinese e dei viaggi nelle sterminate solitudini ghiacciate del Nord o nei deserti di Spagna, nella intensa individuazione della scoperta della vocazione poetica a contatto con la natura e nell’emozione della musica e delle passioni, nell’inquietudine delle «orribili malinconie» e dell’impazienza di luogo, degli scatti impetuosi dell’ira, nello sdegno della servitú, della viltà, dell’ipocrisia, ma che sempre si arricchisce e si equilibra in toni piú distesi e contemplativi (il godimento dell’infinito nella pagina di Marsiglia, parziale incentivo al ben diverso Infinito leopardiano[16]), in moti di ironia e di sorriso che non conoscevamo (se non in qualche lettera) nella precedente opera alfieriana[17].

La Vita trova cosí la sua particolare condizione di complessità in un maggiore equilibrio che permise all’Alfieri un racconto intenso ma ordinato, una fusione di toni che si rivela nello stesso linguaggio piú complesso che composito, narrativo e critico, analitico e sintetico, impetuoso e sensibile, sdegnoso e sorridente, dosato con mano sapiente specie nelle prime parti piú ispirate e piú efficacemente nella seconda redazione del 17991800, caratterizzata dallo sviluppo e dall’accentuazione di alcuni motivi che nella prima erano poco piú che accennati: il motivo antifrancese e quello antirivoluzionario. Alla Rivoluzione francese, in un primo momento, l’Alfieri aveva accordato la sua simpatia con l’elogio cauto, ma sicuro, dell’ode Parigi sbastigliato: ode in cui egli aveva accettato come necessaria la violenza della celebre giornata del 14 luglio[18]. La prima giustificazione e la crescente cautela che presto l’aveva seguita, si cambiarono poi in una delusione dolorosa, in una decisa, fremente avversione motivata dal disgusto della violenza dilagante, dei soprusi esercitati a danno della libertà dei singoli, dell’antipatia per il predominio della plebe e di una borghesia di cui egli non comprendeva i concreti atteggiamenti politici che gli apparivano utilitaristici, volgari, privi di eroismo e di ideali superiori, e soprattutto dal dissenso profondo con la cultura illuministica che aveva trovato nella Rivoluzione francese la sua espressione storica, la sua attuazione militante[19].

Nascono cosí alcune opere polemiche e satiriche: le Satire e il Misogallo, e poi, in un tentativo di giustificazione del suo ideale politico, le Commedie politiche.

Nelle Satire (iniziate nel 1786 in una disposizione piú generica di nuova esperienza letteraria e nella ricerca di un «brio severo», di un tono piacevole e aspro – l’«agro-dolce» dell’Etruria vendicata – nella satira dei costumi contemporanei, ma attuale soprattutto dal 1793 al 1797) l’Alfieri svolse una specie di violenta e varia guerriglia contro gli aspetti piú odiati della civiltà contemporanea, compresi alcuni aspetti del costume italiano che mostrano come egli potesse rivolgersi, in questa direzione satirico-polemica, anche contro l’oggetto piú vivo del suo nuovo amore nazionale quando questo presentava caratteristiche diverse da quelle vagheggiate per il suo «popolo italiano futuro»: Le Leggi, Il Cavalier Servente Veterano, L’Educazione, una delle piú riuscite nella direzione del «brio severo» e nella caratterizzazione satirica dei personaggi, come può vedersi già dalla prima parte della satira che qui riporto:

Signor Maestro, siete voi da Messa? –

Strissimo sí, son nuovo celebrante. –

Dunque voi la direte alla Contessa.

Ma, come siete dello studio amante?

Come stiamo, a giudizio? i’ vo’ informarmi

ben ben di tutto, e chiaramente, avante. –

Da chi le aggrada faccia esaminarmi.

So il Latino benone; e nel costume,

non credo ch’uom nessun potrà tacciarmi. –

Questo vostro Latino, è un rancidume.

Ho sei figli: il Contino è pien d’ingegno;

e di eloquenza naturale, un fiume.

Un po’ di pena per tenerli a segno

i du’ Abatini e i tre Cavalierini

daranvi; onde fia questo il vostro impegno.

Non me li fate uscir dei dottorini;

di tutto un poco parlino, in tal modo

da non parer nel mondo babbuini:

voi m’intendete. Ora, venendo al sodo,

del salario parliamo. I’ do tre scudi;

che tutti in casa far star bene io godo. –

Ma, Signor, le par egli? a me, tre scudi?

Al cocchier ne dà sei. – Che impertinenza!

Mancan forse i Maestri, anco a du’ scudi?

Ch’è ella in somma poi vostra scïenza?

Chi sete in somma voi, che al mi’ cocchiere

veniate a contrastar la precedenza?

Gli è nato in casa, e d’un mi’ cameriere;

mentre tu sei di padre contadino,

e lavorano i tuoi l’altrui podere.

Compitar, senza intenderlo, il latino;

una zimarra, un mantellon talare,

un colaruccio sudi-celestrino,

vaglion forse a natura in voi cangiare?

Poche parole: io pago arcibenissimo:

se a lei non quadra, ella è padron d’andare. –[20]

Ed ecco la satira dei vari corpi sociali, piú debole questa volta quando si rivolge alle classi ormai sconfitte dalla Rivoluzione (La Plebe e soprattutto La Sesqui-Plebe, cioè la borghesia), o quando satireggia l’età utilitaristica, intenta solo al guadagno e sorda ai valori della poesia e dell’onore (Il Commercio, in cui la punta satirica raggiunge una violenza piú incisiva ed efficace, che fa pensare a certi aspetti della polemica leopardiana nella Palinodia: «Arti, lettere, onor, tutto è stoltezza / in questa età dell’indorato sterco, / che il subitaneo lucro unico apprezza»[21]), o quando piú direttamente attacca la mentalità illuministica, nei suoi ideali umanitari (La Filantropinería) che a lui sembrano vaghi, insinceri e diseducativi rispetto al suo energico ideale di eroismo e di «forte sentire» (e oltre tutto per lui smascherati nella loro insincerità dalla ben diversa pratica sanguinaria dei filantropi rivoluzionari), nel suo atteggiamento di razionalismo freddo e distruttivo che fa cadere le vecchie credenze e non sa creare nuovi miti capaci di parlare al sentimento e di stimolare i popoli a generose azioni (L’Antireligionería[22], in cui piú deciso è l’attacco all’odiato Voltaire, non in nome di una precisa fede religiosa – cui l’Alfieri non ritornò mai – ma in nome di ,una romanticissima esigenza di miti attivi[23], magari di generose illusioni, di «dolci e utili chimere»).

Questi motivi polemico-satirici (che raramente raggiungono un’organica efficacia artistica anche se implicano nelle Satire una notevolissima ricerca di linguaggio realistico-deformante, parodistico-sarcastico di grande vigore) si raccolgono, insieme al nuovo motivo nazionale e al preciso motivo antifrancese e antirivoluzionario, nel Misogallo.

Questa singolare opera (composta soprattutto fra il ’93 e il ’96, ma continuata fino al ’98 e utilizzante alcuni epigrammi già composti durante la fuga da Parigi) ha due nuclei animatori fra loro interdipendenti: l’esaltazione di una nuova coscienza nazionale italiana e l’odio furibondo contro la Francia e la sua Rivoluzione. Questo odio è sentito come necessario generatore della coscienza nazionale del popolo italiano, che riacquisterà la sua individualità, la coscienza di sé nella lotta e nel contrasto con il popolo che lo domina con la sua cultura e ora lo minaccia di diretta dominazione politica. E in questo senso importanti e vive, animate da un entusiasmo appassionato sono le pagine della Prosa Prima («Alla passata, presente, e futura Italia») o il celebre sonetto finale «Giorno verrà».

Ma esse sono inseparabili dalla violenta e dominante parte polemica, in cui spunti piú interessanti e vitali (la polemica contro la soppressione della libertà non giustificabile per nessuna ragione, il bisogno di precise e costanti garanzie della libertà individuale[24]) si mescolano ad uno sfogo di risentimento iroso e impaziente, incapace di distinguere a volte ragioni ideali da piccole ragioni personali[25], acido e artisticamente impuro, come si può vedere soprattutto negli epigrammi che giungono spesso a toccare la volgarità e una sofistica, astiosa bizzarria prosastica e a volte, a suo modo, pedantesca e monotona. La generosa forza della Tirannide, che si conserva nell’impeto piú entusiastico e profetico con cui l’Alfieri abbozza il suo nuovo mito nazionale, nella polemica piú minuta si fa livore e sfogo di umori piú meschini e fastidiosi.

Riflessi della difficile situazione ideologica dell’Alfieri di questi ultimi anni si possono sentire anche nelle Commedie politiche, in cui, negli ultimi anni della sua vita, l’Alfieri cercò di abbozzare in forma di aspra commedia un suo ideale di Stato, capace di garantire la libertà degli individui e di ovviare ai difetti delle forme della monarchia assoluta (L’Uomo), dell’oligarchia (I Pochi), della democrazia demagogica (I Troppi) con una specie di monarchia costituzionale (L’Antidoto) che riprende sostanzialmente la forma della monarchia parlamentare inglese, sempre ammirata dall’Alfieri e significativamente distinta già nella Tirannide come “repubblica monarchica”. Certamente interessanti per l’assillo profondo dell’Alfieri di trovare una soluzione di sicura garanzia della libertà individuale e per la volontà di esperienza teatrale, esse risultano però indubbiamente faticose e ingorgate. Si possono trovare momenti piú felici di rude caricatura (specie nei Troppi, dove l’odio antifrancese e antidemagogico si media in forme piú indirette nella trasposizione della repubblica rivoluzionaria in quella ateniese della decadenza), ma in complesso le commedie corrispondono piú ad una volontà programmatica («Giovine, piansi; or, vecchio omai, vo’ ridere»), ad una vena comico-satirica laterale e parziale che non ad una profonda ispirazione. E questa manca anche in quella commedia di costume (la satira del cicisbeismo italiano), Il Divorzio, che ha pure una maggiore felicità e snellezza di costruzione, un maggiore realismo (l’ambiente è borghese, la società è contemporanea, la scena è a Genova), una maggiore vivacità efficace di battute comiche e satiriche portate sino alla violenza del sarcasmo (con qualche eco goldoniana inasprita e appesantita anche dal linguaggio troppo letterario e cinquecentesco-fiorentino e pure prova di una ricerca linguistica inesausta), e si conclude se non altro con genuini accenti aspri, caratteristici della scontentezza, dell’ira, dell’irrisione alfieriana delle debolezze umane, divenute in questa direzione senile piú acri e risentite:

Spettatori, fischiate a tutto andare

l’autor, gli Attori, e l’Italia, e voi stessi;

questo è l’applauso debito ai vostri usi.[26]

Posizione pessimistica che si ripresenta in forme bizzarre, paradossali (qualche volta efficaci a creare un’atmosfera lunatica e surreale) e pur con spunti di maggior interesse e di maggiore impegno nella sesta commedia, La Finestrina, che, nella sua impresa lucianesca[27], prospetta il problema della insincerità e della fondamentale debolezza degli uomini. Quando Mercurio, sdegnato della eccessiva generosità dei giudici infernali, ricorre allo stratagemma di aprire una finestrina nel petto di ogni morto per vedere direttamente il suo cuore, questo si rivela sempre orrendamente brulicante di vizi e turpitudini infami da cui non vanno esenti gli uomini piú famosi e venerati, sicché lo stesso dio dovrà rinunciare a questo procedimento rovinoso e accettare il consiglio di Omero che pronuncia parole di amara, saggia indulgenza.

Cosí, sullo sfondo della sua volontaria solitudine dell’ultimo soggiorno fiorentino, della sua netta, e spesso chiusa, opposizione alla Rivoluzione francese, del suo segregarsi fra i classici[28], impeti, umori, spietata satira e amara indulgenza si mescolano in un animo che non ha piú la forza piena, centrale dei grandi anni delle tragedie e che pure continua a vivere, a tormentarsi fra sogni eroici e delusioni acri, nella sproporzione fra ideale e reale, in reazioni di varia potenza, desideroso di una saggezza serena che traspare qua e là nelle lettere degli ultimi anni[29] in toni vari di stanchezza e di superiore calma, rotti da nuovi impeti, da scatti di una personalità grande e impaziente, divisi fra i due poli di «ira e malinconia», percorsi da una insaziata volontà di poesia.

E questa ritorna ancora in una zona piú segreta ed intima, sotto lo sfogo iroso delle satire e del Misogallo, nell’ultima attività della seconda parte delle Rime, in cui rara ma profonda si esprime un’ispirazione piú meditativa ed assorta.

Non c’è piú l’impeto drammatico delle rime della «lontananza», non piú il paesaggio aspro e selvaggio di quelle, e qua e là si avverte una diminuzione di forza, una voce piú stanca, un ritmo piú lento, una minor vibrazione del verso. Ma nel nucleo piú intenso delle nuove rime (il gruppo dei sonetti dal ’94 in poi) questa diversità è anche poeticamente positiva in una disposizione malinconica ed intima, in un’aura piú distaccata, in una scena piú assoluta e semplice (la scena dell’anima solitaria, meditabonda e confortata dai sobri accenni ad un paesaggio consolatore e poetico: il paesaggio fiorentino delle Cascine, del «vago Boboli», delle colline di oltr’Arno, dell’«etrusco cielo, / dove ogni oggetto al poetar mi tragge!»[30]), in una contemplazione dei valori essenziali della vita nella vicinanza (piú che invocazione) della morte, che toglie l’asprezza dalle passioni e accresce l’ansia dell’eternità e della gloria[31].

Crescono il gusto della solitudine (sonetto 295[32]), il senso della sazietà delle esperienze esterne (sonetto 268[33]), l’assaporamento di una malinconia divenuta «dolcissima» (sonetto 306):

Malinconia dolcissima, che ognora

fida vieni e invisibile al mio fianco,

tu sei pur quella che vieppiú ristora

(benché il sembri offuscar) l’ingegno stanco.

Chi di tua scorta amabil si avvalora,

sol può dal Mondo scior l’animo franco:

né il bel Pensar, che l’uom pur tanto onora,

né gli affetti, né il Dir, mai gli vien manco.

Ma tu, solinga infra le selve e i colli,

dove serpeggia chiare acque sonanti,

tuoi figli ivi di nettare satolli.

Ben tutto io deggio ai tuoi divini incanti,

che spesso gli occhi a me primier fan molli,

perch’io poi mieta a forza gli altrui pianti.[34]

E questi temi trovano un’adeguata espressione piú lenta e meditativa, una linea espressiva piú facilmente continua. Cosí come la tensione ai valori supremi si compone in movimenti non privi di energia, ma piú assorti e contemplativi.

E in questa suprema contemplazione dei suoi ideali e dei suoi valori l’Alfieri raggiunge un’ultima alta espressione poetica nel suo autoritratto piú nudo ed assoluto: possente ed epigrafico riepilogo della sua vita, nella coscienza del significato profondo del suo perenne messaggio, nella personificazione di quella passione di libertà che anima tutta la sua opera e che collega intimamente il valore del suo atteggiamento politico[35], il senso profondo e storico del suo motivo tragico, il centro stesso della sua grande poesia:

Uom, di sensi, e di cor, libero nato, f

a di sé tosto indubitabil mostra.

Or co’ vizi e i Tiranni ardito ei giostra,

ignudo il volto, e tutto il resto armato:

or, pregno in suo tacer d’alto dettato,

sdegnosamente impavido s’inchiostra;

l’altrui viltà la di lui guancia innostra;

né visto è mai dei Dominanti a lato.

Cede ei talor, ma ai tempi rei non serve;

abborrito e temuto da chi regna,

non men che dalle schiave alme proterve.

Conscio a sé di se stesso, uom tal non degna

l’ira esalar che pura in cor gli ferve;

ma il sol suo aspetto a non servire insegna.[36]

Era questa l’epigrafe alta che l’Alfieri dettava idealmente per la sua tomba[37], e se essa è inseparabile, in quest’ultimo periodo, dalle ultime acri parole d’irrisione delle debolezze umane del Divorzio e della Finestrina (fede eroica e pessimismo, sentimento della miseria e della nobiltà della natura umana che avevano trovato la loro espressione piú complessa e tragica nelle grandi tragedie della maturità), è pur su questo tono altissimo che par piú giusto concludere l’immagine del grande poeta: l’immagine cui guardarono ammiranti e fraterni Foscolo e Leopardi.

E se è giusto indicare in quest’ultimo Alfieri un ingorgo di motivi e tensioni che si collocano in opposizione con il moto progressivo dell’espansione rivoluzionaria, se è giusto rilevare il suo crescente disaccordo dalla linea illuministica fino a torme involutive e, se si vuole, reazionarie, sarebbe profondamente errato non cogliere in tutto ciò e un riflesso profondo della crisi dell’illuminismo e l’enunciazione di potenti motivi preromantici e romantici per i quali pure la storia passò e che danno alla presenza alfieriana un fortissimo valore storico, mal configurabile solo nel cliché di una generale involuzione reazionaria[38]. Non si capisce l’Ottocento italiano, e specie la grande zona Foscolo-Leopardi, senza aver compreso la grandezza fermentante della personalità e della poesia dell’Alfieri.


1 La Virtú sconosciuta, in Scritti politici e morali, I cit., p. 263.

2 Ivi, p. 260.

3 Ivi, pp. 263-264.

4 Tutto il trattato è pieno di paradossi e di ragionamenti forzati (come rilevò B. Croce nel saggio Sul trattato «del principe e delle lettere» di V. A., «La Critica», XL (1942), pp. 331337), ma, nelle sue parti piú vive, gli stessi paradossi hanno un forte valore di intuizioni nuove e non vanno giudicati naturalmente (come ben vide il Russo nella sua introduzione a un’edizione del trattato, Firenze, Le Monnier, 1943) sul piano di un trattato teorico e sistematico, sibbene su quello di un libro di passione, di polemica impaziente, pieno di intuizioni balenanti entro un pensiero sfornito di una cultura adeguata quale sarebbe stata quella ancora lontana del romanticismo: e soprattutto libro di poetica personale.

5 Si veda il L. II, c. V, in cui si può notare come l’Alfieri troppo riducesse le arti figurative (per la musica c’è un’eccezione indicativa: «La musica, nobilissima arte anch’essa, e la prima forse per muovere, e per esprimere (benché passeggeramente) le passioni tutte e gli affetti», ma poi anch’essa è limitata in relazione alle necessità pratiche della sua esecuzione e della sua subordinazione – se musica di opera – alla poesia) all’«esercizio della potenza degli occhi e delle mani».

6 «Io perciò credo, che lo scrittore grande sia maggiore d’ogni altro grand’uomo; perché oltre l’utile che egli arreca maggiore, come artefice di cosa che non ha fine, e che giova ai presenti ed ai lontani, si dee pur anche confessare che in lui ci è per lo piú l’eroe di cui narra, e ci è di piú il sublime narratore. Ed in fatti, gli eroi nati dopo quell’Achille (interamente forse fabbricato nella testa d’Omero) tutti vollero piú o meno rassomigliarsi a lui. Ma, se un eccellente scrittore vuol dipingere un eroe, lo crea da sé; dunque lo ritrova egli in sé stesso» (Scritti politici e morali, I cit., p. 158).

7 Il L. III è dedicato «Alle ombre degli antichi liberi scrittori», ed è anche questo un segno del bisogno alfieriano di trovare una zona ideale altissima e immacolata da contrapporre al brutto presente.

8 Che, fra l’altro, i santi e capisetta cristiani quando furono «protetti finalmente, accolti, vezzeggiati, arricchiti, e saliti in potere, si intiepidirono nel ben fare, divennero meno amatori del vero, e per anche sotto il sacrosanto velo di una religione omai da essi scambiata e tradita, asseritori vili si fecero di politiche e morali falsità» (ivi, p. 221).

9 «Una moderna non curanza di ogni qualunque religione, frutto anch’essa (come ogni altra rea cosa) del principato, fa sí che i nostri santi non vengano considerati e venerati da noi come uomini sommi e sublimi, mentre pure eran tali. Ciò nasce, per quanto a me pare, da una certa semi-filosofia universalmente seminata in questo secolo da alcuni scrittori leggiadri, o anche eccellenti, quanto allo stile; ma superficiali, o non veri, quanto alle cose. [...] Da questa semi-filosofia proviene, che non si sfondano le cose, e non si studia, né si conosce appieno mai l’uomo. Da essa proviene quella corta veduta, per cui non si ravvisa nei santi il grand’uomo e nei grandi uomini il santo. Per essa non si scorgono manifestamente negli Scevoli e nei Regoli i martiri della gloria e della libertà; come nei bollenti e sublimi Franceschi, Stefani, Ignazj e simili, non si ravvisano le anime stesse di quei Fabrizj, Scevoli, e Regoli, modificate soltanto dai tempi diversi. E tutto ciò, perché si rimirano i nostri con occhi offuscati da un pregiudizio contrario ai passati; e perché si giudicano dagli effetti che hanno prodotto, non dall’impulso che li movea, e dalla inaudita sublime tempera d’animo, di cui doveano essere dotati, abbenché con minor utile politico per l’universale degli uomini l’adoprassero» (ivi, pp. 221-222).

10 Ivi, pp. 250-251.

11 Il Bruto I fu ideato il 20 marzo 1786, steso dal 21 al 27 novembre dello stesso anno, verseggiato a Parigi dal 10 aprile al 5 maggio 1787. Il Bruto II fu ideato il 18-19 aprile 1786, steso dal 29 novembre al 3 dicembre, verseggiato dal 5 novembre al 2 dicembre 1787, riveduto entro il 15 ottobre 1788.

12 V. Alfieri, Bruto Primo, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di A. Fabrizi, Asti, Casa d’Alfieri, 1975, p. 45.

13 A cui lo indusse il desiderio insaziato di creazione poetica (che per lui era sempre soprattutto la tragedia), dopo una traduzione (assai alfierizzata se non altro dalla solita fitta presenza dei «pur troppo») della tragedia euripidea. L’Alceste II è contraddistinta da una significativa accentuazione della generosità altruistica che accomuna tutti i personaggi, di fronte all’amore prepotente della vita e del sole che caratterizza la tragedia greca: un ritorno di toni delle tragedie minori dell’84-86 (Sofonisba, Agide), esasperati sul tema dell’impossibilità di sopravvivere alla persona amata. E in questa direzione anche l’Alceste II offre tratti di estrema delicatezza spirituale, ma nel suo insieme la tragedia è veramente un prodotto senile, stanco e pallido, e l’autore stesso poteva cosí commentarlo sul manoscritto: «Ultima scintilla d’un Volcano che presso è a spegnersi» (ed. cit., p. 457).

14 At. V, sc. ultima, v. 281; in V. Alfieri, Abele e frammenti di tramelogedie, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di R. De Bello, Asti, Casa d’Alfieri, 1978, p. 101.

15 Gli elementi piú pessimistici si trovano nelle tragedie, nel dialogo La Virtú sconosciuta, nelle Rime; e si pensi alla prima pagina sulla propria nascita, in cui l’Alfieri si guardò bene dal riprendere quella desolata frase «A’ 17 Gennajo nacqui per mia disgrazia» che aveva segnato in alcuni appunti di cronologia della propria biografia (Vita cit., II, p. 275).

16 Specie nella mia interpretazione dell’Infinito in La protesta di Leopardi cit., e nelle Lezioni leopardiane cit.

17 Si veda il saggio di R. Scrivano, L’ottica autobiografica, in Biografia e autobiografia. Il modello alfieriano, Roma, Bulzoni, 1976, pp. 105-131.

18 Anche nel Capitolo allo Chénier del 1789 aveva detto che, malgrado tutto, dalle nuove agitazioni sarebbe sorto un avvenire meno nero del presente dominato dal dispotismo monarchico. E in una lettera del 22 dicembre 1789 alla madre, l’Alfieri giustificava i disordini e le violenze rivoluzionarie come un male transeunte, «da cui ne potrà forse ridondare un bene durevole» (Epistolario cit., II, p. 24).

19 Per una spiegata descrizione dell’atteggiamento dell’Alfieri di fronte alla Rivoluzione francese, rimando alla mia giovanile Vita interiore dell’Alfieri (1942).

20 Vv. 1-36; in Scritti politici e morali, III cit., pp. 105-106.

21 Vv. 43-45; ivi, p. 167.

22 E in simile direzione si muove la satira Le imposture, violento attacco alla massoneria filantropica e illuministica.

23 Caratteristica per tale posizione la terzina:

Ci vuol altro, a cacciar Cristo di nido,

che dir ch’ell’è una favola; fa d’uopo f

avola ordir di non minore grido.

(Vv. 43-45; ivi, p. 111).

24 Ed è qui che l’Alfieri poteva affermare di non aver tradito il suo ideale di libertà rivolgendosi contro la Rivoluzione francese, che a lui sembrava invece traditrice della libertà con il Terrore, la ghigliottina e l’annullamento di ogni garanzia individuale.

25 Cosí nel Misogallo sono riportati i documenti delle perdite subite dall’Alfieri nella sua fuga da Parigi, ed è chiaro che a questo punto gli elementi validi di una polemica antirivoluzionaria in nome della «divina libertà», a cui non si possono dare, secondo le note parole foscoliane, «ostie di sangue», si confondono con le reazioni dell’aristocratico. E comunque si possa giustificare positivamente l’atteggiamento dell’ultimo Alfieri, non può non colpire sfavorevolmente nell’ultima Epoca della Vita (aggiunta nel 1800) la svalutazione della grande Rivoluzione e l’apprezzamento delle truppe reazionarie e sanfedistiche.

26 At. V, sc. 8, vv. 306-308 della verseggiatura; in V. Alfieri, Commedie, vol. III, Testo definitivo, idee, stesure, prime verseggiature, ed. critica a cura di F. Forti, Asti, Casa d’Alfieri, 1958, p. 297.

27 Le opere di quest’ultimo periodo risentono molto delle letture di classici greci a cui l’Alfieri si era dato con grande passione negli ultimi anni della sua vita, in una nuova ansia di cultura aristocratica, nel desiderio di colmare i vuoti della sua formazione difettosa e di chiudersi sempre piú in un mondo alto e perfetto.

28 È soprattutto in questi ultimi anni che l’Alfieri, mentre si dà allo studio del greco, si applica alle traduzioni dei classici, da Aristofane, Eschilo, Sofocle, Terenzio, Virgilio, Sallustio. Traduzioni che, sempre tese dal predominio dell’esigenza del «sentire» (dice l’Alfieri nella prefazione dei volgarizzamenti: «Si vedrà forse da chi li esaminerà bene, che se io non sempre ho perfettamente intesi i testi, almeno per lo piú li ho certamente al vivo sentiti; il che talvolta equivale, se pur non sorpassa, l’intendere»; in V. Alfieri, Traduzioni, vol. IV, Teatro greco, ed. critica a cura di C. Sensi, Asti, Casa d’Alfieri, 1985, p. 4), si legavano anche a quella ricerca di una cultura letteraria piú solida e di una lingua toscana «corretta e pura» che è un aspetto importante dell’ultimo periodo alfieriano e si giustifica insieme nel crescere delle esigenze del «letterato» e di quelle nazionali patriottiche e antiilluministiche e antifrancesi.

29 Si rilegga almeno la lettera già citata del 21 aprile 1800 all’abate di Caluso [qui a p. 43].

30 Son. 284, vv. 13-14; Rime cit., p. 231. Nonché da nuovi accenti amorosi consolatori, anche se a volte tesi dal tormento di sopravvivere alla donna amata o del “premorire” a lei. Si veda il sonetto 290, in cui il dubbio tormentoso si placa nella certezza di una morte assieme alla donna amata, e il 307, che culmina nel verso gridato: «Non posso sopravvivere all’Amata» (ivi, p. 247).

31 Il desiderio dell’eternità apre spiragli su dubitose prospettive metafisiche legate al sentimento inquieto di un sensista insoddisfatto della limitatezza dei sensi (del resto lo stesso problema dell’«anima» si risolve piú in un dubbio per quella «lusinga, in un sublime e insana» che non in un’affermazione spiritualistica: si veda il sonetto 274, ivi, pp. 224225), ma sostanzialmente, in maniera piú congeniale, l’aspirazione all’eternità si risolve in quella alla gloria, quella «eterea» «vita verace» che il poeta attende dalla propria opera. Si rilegga il sonetto 281, intensa esaltazione e definizione del potere della poesia:

Bella, oltre l’arti tutte, arte è ben questa,

Per cui sfogando l’uom suoi proprj affetti,

gli altrui con dolce fremito ridesta,

mercè gli ardenti armonïosi detti.

Sovr’auree penne in agil volo è presta

sempre a recar fruttiferi diletti

di contrada in contrada; e mai non resta;

che ha i secoli anco a soggiacerle astretti.

O del forte sentir piú forte figlia,

che a’ tuoi fervidi fabri sol dai pace

quel dí, ch’invida Morte atra li artiglia;

Poesia, la cui fiamma il cor mi sface,

se al tuo divin furore il mio somiglia,

deh dammi eterea tu vita verace! (Ivi, p. 229).

E cosí si veda anche il sonetto 302, in cui il poeta si configura come «saggio».

32 Solitudine riempita dalla contemplazione-meditazione su elementi della natura, dell’arte, della poesia, della storia della condizione umana, e soprattutto dei «piú segreti avviluppati chiostri» del proprio cuore (v. 11; ivi, p. 238).

33 «Cose omai viste, e a sazietà riviste, / sempre vedrai, s’anco mill’anni vivi: / e studia, e ascolta, e pensa, e inventa, e scrivi, / mai non fia ch’oltre l’uom passo ti acquiste» (vv. 1-4; ivi, p. 220).

34 Ivi, pp. 246-247.

35 Da questa alta posizione si può anche meglio comprendere l’aspetto piú serio e profondo dell’opposizione dell’Alfieri alla Rivoluzione francese (e si veda anche il sonetto 308), che era opposizione ad ogni forma di potere limitativo per la libertà assoluta dell’individuo e del letterato alfieriano. Posizione antistorica ed astratta? Ma quale perenne “antidoto” (anche in contesti storici diversissimi e quindi con diversissime connotazioni di questo stesso “antidoto”) per il letterato servitore di tutti i regimi, cortigiano di tutte le corti!

36 Son. 288 (29 ottobre 1795); ivi, p. 234.

37 Alla morte e ai preparativi del poeta perché essa non gli sopraggiungesse inattesa e improvvisa si riferisce piú direttamente il sonetto 308, del ’98, che inizia appunto con il fermo prepararsi dell’Alfieri alla morte («Già il feretro, e la Lapida, e la Vita / che scritta resti, preparando io stommi; / né inaspettata sopraggiunger puommi / omai Colei, ch’ogni indugiare irríta») e che si conclude con la speranza di offrire ad altri «di liber’uomo Esempio» (ivi, p. 248).

38 Rinvio per una discussione in proposito (specie con il saggio di N. Sapegno, Alfieri politico (1949), ora in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari, Laterza, 1966 (1a ed. 1961), pp. 21-39) alle pp. 41-43 del mio volume Poetica, critica e storia letteraria e altri scritti di metodologia, Firenze, Le Lettere, 1993 (il saggio che dà il titolo al volume uscí originariamente nella «Rassegna della letteratura italiana», nel 1960, e poi in volume, Bari, Laterza, 1963 e successive edizioni).